Picture a voice. It’s the cry of an animal. Made by a machine. That’s my voice. Picture my mouth, it has no tongue. This is my voice with no tongue. It speaks in tongues. Does that scare you? What a beast I am. You see, a voice will never be something to own.
Ovidio scrisse il suo capolavoro, Le Metamorfosi, circa duemila anni fa. È un’opera meravigliosa, piena di mistero, ma anche un libro in cui donne e ninfe sono inseguite da gli uomini, perdono la loro voce e vengono trasformate in pietre, acqua, animali... Il punto di partenza del lavoro di Manuela Infante è una domanda: come viene prodotto il concetto di “umano” in queste storie? Perché la natura è un territorio separato e perché le donne sono così facilmente espulse in questa alterità o “wilderness” fabbricata? Inventando un’alterità e associando le donne a essa, l’“umano” viene delimitato come un luogo privilegiato per gli uomini.
In Metamorphoses, Infante cerca di capire come il confine che divide l’umano dal non-umano sia fabbricato nel testo per poi decostruire questa separazione. Sono infatti le stesse distinzioni che costituiscono la base degli argomenti dei “soggetti maggiori” a consentire la categorizzazione e quindi la colonizzazione dello sfruttamento e dell’appropriazione misogina, razzista, patriarcale ed estrattivista. L’obiettivo di Infante in questo lavoro è aprire nuovi modi di affrontare la letteratura antica. Le sue Metamorfosi potrebbero essere descritte come un intreccio, un’assemblea in cui tutte le voci vengono elaborate in diretta. Nel paesaggio sonoro incantato così creato, la voce non è un’espressione dell’agentività umana ma piuttosto una materia più che umana. Una voce è una cosa presa in prestito dal vento, che intreccia esseri umani e non-umani in infiniti ventriloquismi, refrain ed echi, senza mai appartenere completamente a nessuno