Ciò che rende uno sconosciuto uno sconosciuto, è il fatto appunto che non abbia un nome.
La scena è vuota, come una casa vuota con gli elementi d’arredo essenziali. Ci sono due fotografie degli attori in scena. È come se fosse in corso un trasloco: ci sono diversi scatoloni sparsi in tutto lo spazio, su alcuni c’è scritto qualcosa, su altri no. Su uno di questi c’è scritto “giradischi”, su un altro “telefono”, su un altro ancora “maglioni invernali”... forse. Gli scatoloni contengono vari oggetti di uso comune, oggetti della memoria, evocatori di ricordi personali e collettivi. Gli attori stessi sono evocatori dei ricordi che materializzano nello spazio, ci portano indietro nel tempo attraverso oggetti, suoni, parole e azioni. Si tratta di memorie individuali che attingono dall’immaginario collettivo.
Questi oggetti vengo svelati poco a poco con la loro storia e vanno a riempire lo spazio fino a creare una sorta di caos della memoria, come se entrassimo in un quadro senza via d’uscita, un labirinto chiassoso fatto di oggetti che cancellano la memoria stessa che cerchiamo di non perdere, di infarcire, ma che alla fine viene coperta dal caos. All’accumolo degli oggetti corrisponde un accumolo di suoni, ricordi, canzoni e musiche. Tutto si accavalla, tutto si dimentica e viene ricoperto, perfino le foto degli attori vengono sommerse dagli oggetti della memoria. Si crea un quadro caotico del quale faccimo tutti parte, attori e pubblico.
In scena ci sono due persone che per tutto il tempo tentano di scattarsi una fotografia, alle loro spalle c’è sempre uno sconosciuto: il pubblico.
Tutti noi abbiamo un nome, gli sconosciuti no. Ciò che rende uno sconosciuto uno sconosciuto, è il fatto appunto che non abbia un nome. Il suo fascino è che possiamo proiettare su di lui qualsiasi storia, può essere qualunque vita: se al matrimonio di un parente, mentre scattiamo una foto ricordo, sullo sfondo passasse una donna in bicicletta, quella sconosciuta diventerebbe inconsapevolmente parte della nostra famiglia: ogni volta che guarderemmo la foto nell’album dei ricordi la riconosceremmo. Noi stessi siamo gli sconosciuti, senza saperlo, di chissà quante persone. Chissà in quante foto di uno sconosiuto siamo?
Le due persone che tentano di farsi una foto, portano avanti un dialogo che è il fil rouge della nostra storia. A questo dialogo si sovrappone e si alterna l’intervento di una terza figura che apre immagini che hanno a che fare con il tema e lo fa anche attraverso gli oggetti, i suoni, gli elementi scenici e il dialogo stesso degli altri due.
In scena è presente il copione, sul quale è visibile il titolo dello spettacolo. Il copione testimonia il percorso creativo, è la memoria tangibile del lavoro e può contenere oggetti della memoria, ad esempio un fiore, una dedica o il volantino di una mostra. Può essere aggiornato e appuntato di continuo anche durante lo spettacolo stesso. Il copione è come una foto: conserva la memoria, ci serve per “fare memoria” ed è un’attestazione del fatto che lo spettacolo è esistito.
Una pioggia di aeroplanini colpisce tutti e ci trasporta in altri tempi.